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Bambolabomba

13 sabato Lug 2013

Posted by iole in rivisti

≈ 6 commenti

 

Una cosa piccolissima.
L’incidente frontale.
Sui prati imboccati dai soli.
Una nitroglicerina.
Pic-co-lis-si-ma-che-quasi-non-c’era.
Era
chiodo lanciato di gola.
La cannonata.

Quanta grazia che albeggia dai cigli, quanto oro
sul cespo di nervi.
La rozzezza fiorisce il cervello.
Onnipotenza.
Quando i campi lavati di sole
cedono alle vene a strapiombo.
La scarica elettrica.

In tiri di carne l’oriente leva vittoria, un’orchestra
di lingue dentro le lingue, le aste nelle salive.

A rapidi colpi, le moltitudini.
Sud sud sud.
Gli orizzonti presi di mira.

Affiorano rossori.
E strappi mugolano. Benedetti spolpamenti – svelamenti.

Branco che azzanna ricchezze dove i soli, ah, i soli!

A nidiate, le dita friggono la vacca morfina.
Miss si inerpica sulla saliva, si sonda
con la carrucola infilzata di vena.
Ringhia.
Una sola sniffata.
E professa i fianchi come uno splash di delfini.
Poi chiude bottega.

annett-turki-54

annett turki

 

 

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Requiem per i vivi

21 domenica Apr 2013

Posted by iole in rivisti

≈ 10 commenti

                                                Per l’infanzia possibile, per la grande
                                                                                     vita.  Per amore.

 *

Scrivo per fare una palla, lanciarla appesa al cordone.
Il rischio è di morire.

–

Già morti. Non ancora pianti. Vecchi. Miei vecchi
senza rotazione, defunti guerrieri della carne sospesa.
Ora malati, nudi fra le mie mani, nella casa abbattuta
dove ancora insiste la guerra.

Sopravvivere alla vita. Un vero talento. Una cosa voluta.

I

La casa occupa lo spazio di un feto abortito.
Da un mobile all’altro, il letto, i fornelli lanciano voci,
i più grandi silenzi.

Nell’angolo la fiera ringhia. E’ ancora viva.

II

Era secca l’alba che si apriva sul tetto; cani e grandi ustioni fra i sassi in cortile.
Poveri! poveri, come si era felici di stare confusi alla brace, al solo
rumore di termiti nel legno fracassato. Una cura.

III

Loro due.
Senza baci, senza semi. Due unici quasi perfetti.
Lui:  scuro capo che batte danaro contro durata,
un gioco all’ultima spoglia per una vita più lunga più viva più
vana di un anno senza. Sfama una greppia colma di paura.
Il prezzo è la mancanza. Tutto contro niente, un equo scambio
per un folle.

La troppa fatica del suo stare saldo fra il respiro e il burrone lo resero calvo.

Nessuno dubiti della sua fe-li-ci-tà: non è la bellezza che conta!
venti trenta milioni di anni.
Punta in alto l’ometto: l’eternità è un meritato traguardo.

IV

Una luna e i suoi crateri saltellavano fra i denti della madre.
Lei acconsentì alla strage.
La devozione era la sua fortuna. Come una eva brillava
fra i rami della casa. Un frutto per gli uccelli. Un sicuro
arresto cardiaco.

A gancio fra lo squarcio e il roseto; un massacro quasi completo.

V

Nero. Più nero il suono secco del cuore avanzava anno con anno.
Amore non alzava l’orizzonte anche se era urlato chiaro il nome.
Il corvo prestava attenzione alle pose da assumere.

Tutto calcolato. Meno Dio.

VI

Una fragile ossatura, un palco a forma di casa, un occhio smarrito: centro!
E ora che il nodo è rovescio, rifai il verso, conta i guaiti lasciati lungo il sentiero
come calce prima del sacrificio. Poi conta le vene. Meno una.
E’ nato un bambino.

Le gambette correvano a tastare la tana.
Di sabbia. Di acciaio.
No!, di lana e tempo.
La lana fu presa da bestie ormai morte.
Il tempo dalla sua stessa vita.

VII

Era una casa piccina.
Quattro per quattro.
Meno uno.
Zero appuntito.

VIII

Il giorno era scuro. Il cielo scomparso. La notte senza mai pace.
Il vento era nei muri. Nelle braccia che sbattevano come rami.
La casa colpita e colpita come una frasca.
Bambini, uncini: tutto cadeva con un rumore bestiale.

Un cuore solo frullava come un volo di uccelli.
Frrr… Frrr… Ma dentro quel vuoto di intenti nessuno riusciva a cantare.

IX

E tutto doleva in quel luogo distante.
Dolevano i prati che spiovevano a valle senza fine.
Dolevano le mosche e le loro cacche.
Doleva la tenda scossa dal vento.
Doleva il prodigio della televisione che spediva bzzz bzzz nello spazio.
E alla domenica le campane facevano un don che batteva
duro dentro le teste. Batteva. Batteva.

X

Di piangere nessuno era capace. Il riso era una smorfia
tirata da un punto all’altro del balcone.
Sul balcone, un geranio. Rosso. Carnoso.

E l’estate sembrava una grande estate.

XI

Dritto come un fuso, il destino frugava nel sacco dell’immondizia.
E immondo era il cortile, immonde le scale della legnaia, immondo l’impasto del pane.

Ma c’era un chiarore che bucava quel niente corrotto.
Un corpo discreto insisteva come un insetto sul naso.

XII

In un sogno era piccina.
La madre dritta su un carro percorreva la strada di sassi, vestita di bianco,
come l’angelo in chiesa vicino all’altare.

XIII
Il sacrificio è qualcosa che viene portato.
Come un vestito. Un dono.
XIV

Fratelli come chiodi piantati nel sangue.
Ruggine e legno non fanno Gerusalemme.
La vera indole viene fra odore di latte e accette sui travi.
Corpi mastini mostrano i denti, ringhiano fame di monti inesplosi.

XV

Il cerchio si chiude. Stretto buio che sfugge al calore.
Chiusa la bara, il respiro si disfa, fa grumo di cenere nera.
Nessun luogo è salvo ora che morte ha stretto le braccia, ne ha fatto
funi legate a marcire il corpo offeso dal male.

XVI

Sepolto,  solo, dove la mano insiste nel vuoto.

Casa era semplice odore di mucca.
Era campo l’inverno.
Voglia di pianto e perdono.
Ma assale il tormento, solitudine.
E sei perduto.

XVII

La tomba è senza lapide. I fiori
morti dentro un catino corroso.

Non è questo il luogo del riparo.
Il fuoco arde troppo nero.
La candela è spenta.
Gli occhi cercano terra.

XVIII

Qualcosa deve accadere. Un luogo dove avvenire.
L’accesso risuona da qualche parte, potente.

XIX

Nel nero, nel plasma che tenta l’abisso.
In nome di padre, in nome di madre, del terzo fiato che lega.

XX

Malattia, hai volto amore.
Fragile corpo, ecco le mie mani.
Vita offesa, questa la salvezza.
Io che tu hai ingiuriato.
Io tuo
padre, figlio
io solo
mortificato cuore
mancato amore.

XXI

Perdono alla vita che non mi ha confortato.
Perdono alla gioia che non mi ha liberato.
Perdono alla bellezza, alla dolcezza, al pianto.
Perdono al seno che non mi ha cullato.
Perdono al canto che non ho udito.
Perdono ai monti alla pioggia alla neve.
Perdono alla grazia.
Perdono la pena.
Perdona me morte.

XXII

E ora salvami luce uterina.
Lascia che la belva si tolga le vesti,
passi sul corpo morto dei viventi.

 

——————————————–

Alle grandi solitudini, in memoria.

colibrì

30 sabato Mar 2013

Posted by iole in ---, rivisti

≈ 4 commenti

Di lei ricorda gli occhi grandi; un’ombra che inquietava.

Diceva che aveva paura di quel fuoco che la divorava fra le gambe.

*
Alla sera ci trovavamo in cortile, sedute sul muretto.
I panni stesi raccoglievano le ombre arrotolate a terra.

Raccontava delle cose che le sarebbe piaciuto fare.
Diceva che si sarebbe sposata con uno di fuori,
che avrebbe abitato in città, che avrebbe trovato un lavoro
non come sua madre con la schiena sempre rotta di lavoro.

*

Di lui ricorda le mani perfettamente pulite
quell’aria da sopravvissuto, lo sguardo mesto a nascondere ombre.

*

Quando me lo ha detto ci conoscevamo già da molto.

Una sera che non si muoveva niente, l’aria caldissima.

Teneva gli occhi fissi.
Ha cominciato a raccontare

*

La scusa era stata un film con Sofia Loren.
La zia si era addormentata sul divano.
Lui, sulla poltrona, le lanciava occhiate di tanto in tanto.
Sua zia la voleva  lì, a fare la bambina che non aveva avuto.
La portava nei negozi del  centro, le comprava vestiti.
Era allegra la zia, la portava nei locali
dove si bevevano drink e la gente era molto chic.
Ogni tanto si ubriacava. Poi rideva o piangeva.
Era pazza, come quando si è giovani
e ogni cosa diventa bellezza.

Non sa se le piaceva stare lì.
Le piaceva l’odore buono della zia
osservare le cose nelle strade, tutte quelle cose strane
che al paese non si potevano vedere.

Alla zia suo marito parlava sottovoce
la tirava piano per un braccio
le diceva cose
che nessuno poteva sentire.
Sembrava dolcezza.
Tutti pensavano che si amavano tanto
che erano proprio felici
senza bambini
con tanti amici
a girare per casa
ascoltare musica
seduti sui tappeti
a fumare
così giovani
così diversi.

Fuori il paese muto,
dentro, lei, nella pancia della voglia di cose belle.

*

Della Ciociara le aveva parlato la mamma.
Chissà come l’aveva conosciuto.

Le piacevano i film in bianco e nero
Ginger Roger e Fred Aster
i film western, le donne dei saloon
quel fare chiassoso con dentro anche l’amore
brusco, o leggero sopra le punte.

Quella sera la Sofia era su quella strada polverosa
con una grossa valigia; sua figlia le camminava dietro.
Trascinava il  peso con dentro tutto il mondo.
Scappavano dalla guerra. Ma la guerra era dappertutto
la terra, le scarpe, le ombre.

Teneva gli occhi fissi su quella strada mentre la Sofia
si nascondeva insieme alla figlia dentro a una chiesa
con i soldati che le spiavano, ridevano e le rincorrevano
fino alle gambe allargate a terra, fino alle urla dentro gli occhi
i soldati sopra.

*

L’angoscia ha cominciato a salirle le gambe.
Stringeva le mani contro la sedia,
cercava un posto.

La mano è scivola di lato, le ha staccato le dita dalla sedia, le dita dalle mani, le mani senza mani
la contenevano bianca di undici anni.

La sedia barcollava, barcollavano le luci,
la terra scivolava

*

Dal tetto crollato la luna cadeva su Sofia e la figlia.

*

Ti piace? Ti piace? Ti piace?
Certo che ti piace lì dove scuote e apre umido resta chiaro che ti piace vieni è così bello assente di occhi mesti favole inginocchiate gioia infeconda gioia che non dice

*

La madre le asciuga il sangue
le accarezza i capelli

*

Di lui sa che si è risposato
dopo la morte della moglie
ha sempre quell’aria da sopravvissuto
lo sguardo contrito dei benpensanti.

Ha un nipotino che gli vuole bene. Si suppone.

Lei dicono sia partita per la Svizzera
che non si sia mai sposata
che lavori in un bar.

Forse ha avuto un figlio.

Non l’ho più vista.

bucharest-protests-ioana-moldovan-1

La casa rossa

20 mercoledì Mar 2013

Posted by iole in rivisti

≈ 16 commenti

 

Bum bum, un pescepiombo saluta le mie budella,
mi sfonda dove già una volta mi ha messo incinta.

*

La casa sta dritta. E’ uno spillone in mezzo alla campagna.
Un viale lungo il camposanto conduce alla porta.
Rose rampicanti e more.
Muri bianchi come la spannatura del latte.

I mobili conficcati al suolo non hanno paura.
Le pareti sono solchi in terra cruda.

Uno spiffero dondola il rosario.
Le finestre mugolano. Sono bocche svuotate.
Sullo sfondo, gialla come un occhio malato, la stanza senza orologi.
Dopo, il buio prima di essere nato.

*

In cucina c’è una donna seduta sull’orlo
della sedia E’ grassa.
La pancia è un cocomero che preme a grimaldello contro la porta.
Cerca la toppa, infila le dita.
Le intinge, le lecca.
La donna mangia, si ingozza.
L’unto le cola dal mento.

Fuori dalla casa fa freddo.
Ogni cosa è bianca.
Nevica Dio.

Nella stanza di sopra è notte.
Una ragazza si rigira nel letto.
Le lenzuola arruffate.
Le coperte cadono sul pavimento.
Su una sedia c’è una maglia color dell’erba e una gonna
con l’orlo sfatto. La casa nuota nel buio.

Dalla parete, uno specchio riflette la ragazza.
La infila come una perlina.
La ingoia fiato a fiato.
Luccica. Non dice una parola.

*

Nella stanza accanto gioca una bambina.
Un petalo per ogni ditino.
Un dito in ogni buchino.
E’ la bambina senza la pelle,
senza le corse, senza uno strillo,
la santa bambina del buio.
Nasce nel sogno.
Tutte le volte che chiude gli occhi
l’astronave l’atterra nel centro.

Quando non gioca si sdraia
vicino all’uomo che dorme
dentro di lei.
Lo sente contro il ventre.
Lei muove i piedini, si annoia,
conta le ore distanti dal mondo.
Non dorme. Aspetta di nascere
dalle ossa dell’uomo, dalla sua faccia
rugosa, dall’occhio.

Una goccia scivola nella vasca da bagno.
Un’altra si gonfia dentro il rubinetto.
Il suo peso come un’esca.

Fuori, scaglie di prati si disfano
sotto i piedi di una mendicante.
Il vento le solleva le gonne.
Comincia a volare.
E’ un aquilone.

Lontano, la falcata del mare.

Il sogno tonfa dentro la casa.
I mobili sono scossi alle radici.
Sulle pareti i quadri battono, battono.

*

In cucina  la donna tira uno spago legato alla maniglia.
Un colpo secco.
La porta si spalanca.

La casa sussulta, i muri
si stringono alle fondamenta.
Il vento li sfrega con una carezza.

*

La ragazza che dorme
ha una storia dentro la bocca.
Di notte la bocca si schiude,
le parole sgorgano come una bava.
La storia si srotola sopra un filo,
entra nello specchio.
La ragazza si disfa,
parola dopo parola.

Nella stanza accanto, la bambina dentro l’uomo che dorme
non sogna. Diventa i denti, l’alito, il gesto di grattarsi la patta.
Si ingrossa a ogni respiro.
Gli occhi mirano il vuoto.

Lontano, una folata rompe gli ormeggi.
Sussulti.
Schiocchi.
Colpi secchi.

La donna grassa inforca un’altra cucchiaiata.
Ha le guance tese a palloncino.
E’ ferma davanti alla porta.
Il vento la scala.
Si gonfia a ogni boccone.
E’ vicina allo scoppio.
La destinazione è la macchia
rossa sul muro.

La casa è matura come un bubbone.
Un cervello puntato all’universo.
La fine di qualcosa, di sicuro.

erik-johansson-24
erik johansson

Bianco – il mondo non creato

12 mercoledì Dic 2012

Posted by iole in ---, rivisti

≈ 17 commenti

Dire ( eh!)
Accendere la musica ( eh!)
Chiudere gli occhi
Non fare male
L’erba se ne frega
I libri
Astronavi e botti
Vulcani che si spengono
Altri silenziosi
Mi giro sulla schiena
Un fatto di nessuno
Mi alleno
Dormo
Bene
Non faccio attenzione a non schiacciare le formiche.

/

Dio era davanti a me, mio come una casa in affitto.
Mi guardava come fossi la bambina di una taglia più grande del vestito che mi aveva preparato.
Mi ha sfiorato lo zigomo. Poi ha lasciato cadere la mano. Mi ha dato la sua bocca.
Ha detto lasciala scorrere lungo le curve dei gomiti, nello sbadiglio.
Sentirai il duro della testa, la forma liquida del sangue.
Ti entrerò come la morte. Ti farò vedere.

Una coltellata di neve ha fatto il suo ingresso.

Era pazzo.
Io con Lui.
Era inverno.
Ero grassa di Lui.

Poi è successo. Qualcosa si è deformato.
Un difetto, il perno debole di un ingranaggio.
Crak, il primo strappo si è aperto sul seno.
Non fa niente, ha detto, e mi ha premuto dentro come un budino.
Mi masticava come un chewingum.
Io continuavo a morire. A nascere. A nascere ancora.
Ero grande come tremila bambine. Trentamila femmine odorose.
Trentamilioni di bombe atomiche.

Il cielo era gonfio come due labbra africane.
Uno sciame di neve si allargava sopra di me.

Mangiavo Dio in ogni boccone.
Fuori, dentro, a pompa nella carne.

Mi ha preso la mano, mi ha portato nel posto senza orme.
Le O delle nostre bocche rotolavano in cielo senza giocoliere.
Cadevo come neve nella sua trachea.
Ero bianca, evaporata dal mio corpo.

Quando parlava, lui lo faceva col mio sangue.
Si sporgeva dai miei occhi, teso come il sesso.

Ero una pianta la radice il vento.
Insieme davamo forma all’assoluto, al niente, e via di seguito.

La trasparenza delle cose ci inforcava da ogni parte.
Mi chiudevo sopra di Lui.
Ero sua madre e nessuno.
Ero io più l’universo.
Non ero niente.
Ero la sua erezione.
Ero la commozione.
Più forte più fitta più dolorosa del parto.

Poi è venuta la fine.
Puf, sono esplosa come un palloncino.
Lui è caduto a terra.
Io non ho neanche pianto.

Gérard Uféras

Gérard Uféras

07 giovedì Apr 2011

Posted by iole in incompiuti, rivisti

≈ 2 commenti

 

luna lupa confine dell’occhio mangiato
oltrebuio oltredente ghiotto dente che mi spartisce pane a pane
cesto di more di un’estate scapicollata sui seni parola incompiuta che mugola 
la gioia colossa spada lanciata dai quattro cantoni
caverna di sogno mia albaparola, centrami dove fai forma di notte
buio buio buio
dilagante grazia
[…]

 

virginia derryberry

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