Campi. Aperti alla fame. Sulla brace di una moltitudine sola.
Un’estate fiera. Giù dai prati, il terrore portato in spalla insieme alla gerla.
Così stava la bambina pensata brutta e sola.
Nel troppo verde, nel silenzio appuntito dei pini, la gola calda della valle.
Neve molto lontana.
I rovi colmi di more muovevano la gonna.
Le case sfioravano l’orlo fra l’intermittenza di passi e sassi.
Una folla premeva alla bocca, incomprensibile.
Per la bambina ogni cosa era verde su blu capovolto.
Nell’abbandono, nidi fra i noccioli lungo il sentiero.
Qualcosa tagliava l’aria, scendeva nella polvere di fieno, giù dal campo dove fascine pungevano i corpi lucenti dei contadini che spaccavano cuore dal cuore coi loro becchi affamati.

In cortile, il sangue grondava dai pali ai quali la bestia era appesa, sgozzata.
Il segreto ben custodito, ringhiava dal buio.
I cardini ghignavano filtrando una luce dal fondo.

Se avesse saputo, se quel giorno un altro rosso fosse corso lungo il solco, se un altro pensiero si fosse fermato fra l’erba, …
Poi piovve. Si bagnò il raccolto. Il fieno marcì.
Le ante ben chiuse non aspettavano niente. Semplicemente, ignoravano.
La bambina stava dentro la pioggia. Stava come un ramo dentro l’inverno. Sentiva le cose intorno, sentiva battere le cose. Volevano entrare.
Un dolore trascinava le parole, il corpo doleva di non poterle dire.
Le cose battevano, battevano

—-2018