Nella terra che aprì il maggio

Nella terra che aprì il maggio

un canto si levò dalle vene di pietra

la pioggia eresse l’intenzione del giglio

la luce tese la lancia che aprì la festa.

E gridò il pesco, gridò il croco e la rondine,

gridarono i pioppi e le sterpaglie;

a bracciate il grano accese il campo.

Esaudita la gioia dell’erba,

esaudite le solitudini dei tordi,

il silenzio infiammò le rotte dei venti

che stesero le mani ai tetti, ai fili tesi fra le case,

alle strade ai tram alle navi.

Infine i fiori.

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in Dei colori dei luoghi, Terra d’Ulivi, 2014

averla

averla vista salire – senza voltarsi – sapere che non avresti voluto che si voltasse – pensare di tenerla nell’istante che andando via sarebbe rimasta nel vortice dei fiori che battendo le ali salivano con lei – insieme a lei perduti

che fa

Le strade insieme all’erba volano via i pensieri gridati volano più grandi le gole degli alberi non si possono liberare le mani che singhiozzano. Sono tempi moderni di passato le cinque dita impresse sul volto. La madre è ubriaca il padre fa fuoco si brucia via gli occhi. Ma scodinzola il fiato dei larici ogni singola donna si innesta nel blu e canta il bel rumore che fa.

Alberi

Alberi, condense di alberi, alberi crepitanti, fitti di nevi antiche, corpi celesti, verdi di blu, da camminare alati, da fendere di ipocondria di bene, andate e ritorni e su, dove impossibile è vero, anche lui appeso alle fronde. 

Tagliole di verde ritti al centro del verde. Verde che dà, a pieni rami, a gonfie vele di foglie, dal nord di ogni nord, e soprasotto, in ogni immaginifico ogni.

Verdi le ginocchia, verdi i capelli scossi dal verde, cammina sugli alberi, si albera e inabissa, lattescente, senza schiavitù, senza nome. 

Agopuntata da eoni di bene, è prima lallazione, la verde parola, aurora.

Montagna rossa

Montagna rossa. 

Montagna blu.

Montagna senza peso.

Montagna dell’oro vero.

Montagna salvavita.

Salva buio della mente.

Montagna ogni uomo è libero.

Montagna ogni donna è libera.

Montagna senza illusioni.

Montagna Borges Rimbaud Simone Weil.

Verità.

Nei fuochi del big ben.

Giustizia.

Montagna guida.

Montagna denuncia il lavoro nero.

Montagna denuncia la schiavitù del lavoro.

Montagna denuncia la schiavitù del denaro.

Montagna denuncia il crollo dell’uomo.

Montagna denuncia i muri nelle teste.

Cavalli al galoppo sulle barriere.

Vortica il volto delle donne.

Vortica il sangue ammazzato. 

Vortica pregiudizio oppressione.

Vorticano gli schiavi senza terra.

Lampi gli occhi dei bambini.

Dagli abeti sale il singulto.

Dalle pietre, dai ghiacci, dagli orti.

Dalle fabbriche, dai condomini di periferia, dal cantiere del bonus 110,

le stazioni di notte lungo i marciapiedi,

i volti dei folli, i giustamente folli, i catapultati fuori,

la conta delle percentuali, 1500 pezzi l’ora, fai andar le mani, teste ciondolanti, volti lattescenti

rendimento produzione alienazione.

Il sole è un proiettile.

Il cielo è molto blu.

La pioggia è un deserto.

Kiev è nella polvere.

Nella polvere è l’uomo.

L’uomo è un tumore.

La terra ha l’uomo.

amorchanulloamato

Nel becco del nibbio, le valli, i boschi, un salire di fiori, un trapassare di fuochi, aperte le correnti, e vedovelle e nigritelle in macro tuttoverde. La voglia mi rade al suolo fino al dolore. Prendimi due tremila volte, a soffione sul dorso dei pini. Nella noce dell’aria che lecca sui tronchi muschio e formiche. E felci dentro felci, e trame di verdi, e altri verdi ancora, su, all’inizio dell’acqua. Tu – grandemente non umana – bocca di nebbia e nuvole, soffiami dalla cannuccia nel tempo tuo vastissimo. Tu, più che umana, altra.

Somiglia al mare

Somiglia al mare questo dirsi cose. Nelle voci che si toccano, il blu dell’onda che lega l’acqua al vento, come ossa alla terra. Profondissimo silenzio canta il sangue quando nessun grido confina l’angoscia e la pietà rimanda l’urlo del fondale. Ci sorregge il volo degli alberi. Cose mute aprono al suono della pioggia, alla zolla ossigenata dalla neve. Somiglia e non somiglia. Nessun tempo. Nessun tempo fa del vuoto il sole. Come un’onda, il cielo sopravviene quando tutto è smarrimento, quando il bianco recita il codice segreto delle piante che arano le vene a nuovo verde.

Stanno tutte lì

Stanno tutte lì, la cosa più bella del mondo e la cosa più brutta del mondo. Stanno dentro quel volto smunto, nella bocca sdentata. Strisciano da una parte all’altra del seggiolone, insieme alla mano che va, e torna, senza soluzione. 

Il refettorio è vuoto. C’è odore di disinfettante. Il sole entra lento dalle persiane, si ferma a metà del muro. Il silenzio sa di terra secca. L’uomo è seduto ben legato. A tratti si sentono le dita correre sul piano del seggiolone. Avanti, fino a raggiungere il bordo. E ritorno, fino all’altro limite. Gli occhi ridono di tenerezza. Lui è proprio lì, dove vagano le sue mani, sul duro della formica che tenta di ripulire da invisibili scorie. È là, nel dondolio di un ramo carico di pioggia, atterrato in un prato che gli scorre tutto addosso, il verde dell’aria sospesa sui palmi.
E ridono i suoi occhi, anche quando qualcuno lo prende sotto le scapole, lo alza come un infante, lo adagia sotto le coperte. E’ ora di fare un riposino, dice una voce. Lui non smette di sorridere, guarda il muro, dalla parte della pioggia, lo guarda che canta e insieme a lei canta il soffitto, e canta l’armadio, e cantano i suoi occhi, e le mani cantano da un prato all’altro del lenzuolo.

Il dolore senza il dolore è una veste bianca e respira.

Bambolabomba

Una cosa piccolissima.
L’incidente frontale.
Sui prati imboccati di soli.
Una nitroglicerina.
Pic-co-lis-si-ma-che-quasi-non-c’era.
Era
chiodo lanciato di gola.
La cannonata.

Quanta grazia che albeggia dai cigli. Quanto oro sul cespo di nervi.
La rozzezza fiorisce il cervello.
Onnipotenza.
Quando i campi lavati di sole
cedono alle vene la scarica elettrica.

In tiri di carne l’oriente leva vittoria; un’orchestra di lingue dentro le lingue; le aste nelle salive.

A rapidi colpi le moltitudini.
Sud sud sud. Gli orizzonti presi di mira.
Affiorano rossori.
E strappi mugolano. Benedetti spolpamenti – svelamenti.
Branco che azzanna ricchezze dove i soli, ah, i soli!

A nidiate, le dita friggono la vacca morfina.
Miss si inerpica sulla saliva, si sonda
con la carrucola infilzata di vena.
Ringhia.
Una sola sniffata.
E professa i fianchi come uno splash di delfini.
Poi chiude bottega.

Vene di noccioli selvatici

Vene di noccioli selvatici. Poi fitte di felci lungo il sentiero. Poca erba fra i cumuli dei sassi. Il torrente schiocca la lingua. Le foglie si chinano cieche. Il sole stacca spicchi per la libertà della polvere. Senza dubbio qui si ama. Restiamo appese alla luce, nel corpo delle cicale e di un pensiero che esalta e smarrisce. Ognuna a un passo dal dire qualcosa. 

Un girino in una pozza si prende i nostri occhi, li lancia lontano. Gilla si ferma, guarda quello che io non vedo. Qualcosa le fa a tocchi gli occhi; un pezzo le scivola alla bocca che apre, deglutisce, apre ancora. Tutto di tenerezza. Il buio infila dritto l’altra terra. Noi che non esistiamo. Così la solitudine si inventa la dolcezza mentre la luce dondola e dondola.